La seconda puntata sulla mia personale rassegna social di qualche giorno fa, riguarda un post letto in un gruppo in cui intervengo frequentemente scambiando opinioni.
Riguarda un commento sullo splendido quadro di Artemisia Gentileschi, “Madonna con bambino”.
Il dipinto mostra una madre con il braccio il suo bambino (data la postura e lo sguardo, di almeno 10 mesi). Costei ha gli occhi chiusi, con una mano sul seno come se si stesse apprestando ad allattare; il bimbo guarda il volto della madre e sembra accarezzarlo con la sua piccola mano.
L’autrice del post ravvisa (legittimamente) nello stato di abbandono della madre, una condizione traumatica (presente anche nella vita dell’artista, tra l’altro) che sembra assorbirla totalmente, al punto da interferire pesantemente nell’azione di sintonizzazione con il bambino.
Un vissuto traumatico non elaborato, in effetti, potrebbe determinare un grave deficit nel comportamento materno, tale da compromettere la funzione relazionale e portare ad una forma di “precocizzazione” del bambino che – cogliendo il dolore della madre “assumerebbe” (in maniera impropria) il ruolo di parte accudente della diade.
Non intendo certo contestare una lettura del trauma precisa e puntuale. Tale vissuto è devastante per chi lo subisce e le conseguenze sono incontestabili.
Il post è solo lo spunto per la riflessione.
Intanto (ma questo è soggettivo), il quadro mi rimanda un momento di serenità e intimità della diade madre-bambino.
La madre ha tutta l’aria di essere semplicemente e umanamente stanca; lo sguardo del bambino pare comprendere il suo stato, da cui non traspare preoccupazione.
Partendo da qui mi sono chiesta, ancora una volta, quanto e come gli stereotipi culturali interiorizzati interferiscano nelle nostre percezioni…e convinzioni.
La mia domanda/provocazione per Voi, invece, è la seguente: il “potere” di una madre è davvero così assoluto per cui anche una fisiologica stanchezza potrebbe essere causa di danno?
Rilanciando, se il nostro primo, istintivo pensiero, invece di andare verso la spiegazione più semplice e realistica opta per una negativa e dannosa, detta funzione materna assume inevitabilmente contorni molto meno felici di come ce l’hanno sempre “raccontata”.
Perché, tra le righe (ma neanche tanto) passa il messaggio che una madre, per esercitare “senza danni” la sua funzione, non possa permettersi neanche di essere stanca (stremata da notti insonni, da giorni faticosi…).
Rimarcare – da più parti e con obiettivi diversi – l’esclusività di tale relazione non fa che rinforzare tale sensazione. In questo senso, la femmina dell’animale uomo, al contrario delle altre femmine del mondo animale, sarebbe condannata a perdere una significativa parte di individualità, autonomia, identità a causa di una funzione materna totalizzante…e totalitaria.
Quindi, siamo proprio sicure che possano essere solamente quegli occhi, quel sorriso, quella voce, quel corpo, a poter esercitare una funzione accudente-relazionale indispensabile?
Io no.
Temo, al contrario, che anche tale “sacralizzazione” della funzione materna possa essere, in realtà, una “narrazione” interiorizzata.
Per quanto mi riguarda, non ritengo credibile che il genere a cui la Biologia o (se preferite) Dio (che, tra l’altro, si era anche scordato di crearci e ha dovuto rimediare al volo, con una costola di Adamo), ha assegnato il compito di portare nel proprio grembo una nuova vita, debba rinunciare, in nome di questa, a parti importanti della propria.
Credo, invece, che sarebbe il momento di affrontare e parlare della funzione materna in maniera laica e distante da una certa “narrazione” che, storicamente parlando, ha giovato – e tanto – ad un determinato modello sociale, ma non certo alle donne.
A questo punto, mi fermo…e dibattito sia.
To be continued…
PierAnna Pischedda, Psicologa