Separarsi dal coniuge, troncare il progetto familiare con un divorzio non è mai una festa, anzi.
Anche quando gli interessati maturano una comune consapevolezza e si separano in maniera consensuale, questo non li esimerà da provare (magari con intensità differenti) determinate sensazioni, emozioni, sentimenti, recriminazioni.
In presenza di figli, le cose si complicano ulteriormente. Dette complicazioni vengono comunemente “sintetizzate” nella parola conflitto.
Occorre però chiarire cosa si intende con questo termine vista l’interpretazione distorta che se ne fa nell’ambito del diritto di famiglia.
Il conflitto è uno stato della relazione, un ingrediente presente nella nostra quotidianità. Essendo la relazione qualcosa di dinamico, in continua trasformazione, un conflitto – nel tempo- può aumentare o diminuire d’intensità, risolversi definitivamente oppure temporaneamente.
Ergo, il conflitto non è di per sé negativo, tutt’altro.
Conclamare la conflittualità di una coppia che si separa è come rivendicare la scoperta dell’acqua calda.
Quello che invece non si dice (quasi) mai è che, una volta esaurita la sua funzione “fisiologica”, il conflitto lascia il posto ad una nuova co-genitorialità, spesso più matura della precedente.
E’ vero, vi sono dei casi in cui tale stato perdura, a causa delle difficoltà dei due ex ad elaborare quel mix di senso di sconfitta; fallimento; inutilità; colpa; rabbia; rancore, che una separazione può generare.
Un welfare realmente attento ai bisogni e al benessere dei propri cittadini (di ogni età), dovrebbe prevedere dei servizi specifici (e strutturali), in grado di accompagnare gli interessati in un percorso di elaborazione di quello che – per certi versi – potremmo paragonare ad un lutto.
Per descrivere questo stato relazionale è stato coniato il termine di alta conflittualità.
Conflitto e alta conflittualità sono diventati uno dei leitmotive nelle cause civili di separazione, con un’accezione esclusivamente negativa.
Serve ricordare, a questo punto, che ci muoviamo nel campo delle relazioni intime.
Non bisogna possedere un QI sopra la norma per capire il difficile compito che attende la giustizia civile chiamata a comprendere e decidere su dinamiche e vissuti emozionali difficili da collocare.
Il legislatore, per venire in soccorso del giudice, ha previsto l’apporto di un consulente esperto, capace di non scivolare e sprofondare in quelle che hanno tutta l’aria di essere delle sabbie mobili.
E qui cominciano i dolori. Spiace ammetterlo, ma sembra proprio che i consulenti esperti non siano affatto la norma.
Una diagnosi di alta conflittualità, su cui si basano sentenze che decidono della vita di minori innocenti, necessita – per l’appunto – di un’adeguata formazione, competenza, esperienza e – soprattutto – di una diagnosi differenziale che la confermi.
Mi spiego meglio. Nel momento in cui si afferma l’esistenza di una relazione altamente conflittuale, le cui caratteristiche sono sovrapponibili con la violenza domestica, bisogna essere in grado di distinguerla dalla stessa prove alla mano, indicando gli strumenti utilizzati e la teoria di riferimento.
Non si può accettare anche solo la possibilità di una violenza domestica (reato grave) derubricata ad alta conflittualità (stato relazionale).
Non possiamo accettare, che in virtù di ciò, figli e genitori accudenti vengano
ri-vittimizzati da chi li dovrebbe tutelare.
La carenza / mancanza di formazione dei Giudici è inaccettabile.
Idem per gli avvocati.
Non possiamo accettare Psicologi giuridici incapaci di riconoscere la violenza domestica, ma formati benissimo con teorie spazzatura bandite dalla scienza ufficiale, infilate nella didattica universitaria da chissà chi …e ancora lì.
Non possiamo accettare dei Servizi Sociali investiti di competenze che non gli appartengono (e che non hanno) nonché di un potere inusitato…e mal gestito.
I nostri tribunali sono stati condannati più volte da organismi internazionali per non essere stati in grado di riconoscere la violenza domestica e sessuale; gli abusi e i maltrattamenti sui minori; la pedofilia (un buco nero).
…e a pagare sono sempre e solo le vittime.
Pieranna Pischedda, Psicologa #impunitàistituzionale
Una ricostruzione impeccabile! Ma sembriamo voci che gridano nel deserto