Oggi tiene banco la notizia di un neonato lasciatonella “culla per la vita” diun ospedale milanese, il giorno di Pasqua.
A farlo è stata sua madre, insieme ad una lettera con la quale spiegava le motivazioni che l’avevano spinta a farlo. Il fatto è diventato immediatamente virale grazie ad un comunicato dell’ospedale e ad un personaggio dello spettacolo che in un video-appello sui social invitava la stessa, dietro la promessa di un aiuto-sostegno economico (da parte di chi, non è chiaro, vistol’utilizzo di un generico “noi”),a ritornare sui propri passi in quanto, testuali parole “il tuo bambino merita una mamma vera, non una mamma che dovrà poi occuparsene, ma non è la mamma vera.”
Ora, nonvoglio perdere tempo nel commentare quella che, per usare un eufemismo, ritengo una castroneria (mi riferisco al virgolettato), voglio solo utilizzare le modalità di come la vicenda è stata commentata,come spunto di riflessione.
Premesso che, pur non conoscendo le ragioni della donna, ho il massimo rispetto per la decisione presa, da lei ritenuta come la più giusta e adeguata alla situazione, probabilmente l’esempio più alto di amore materno.
Ho – come sempre – letto più di un articolo e svariati – nonché numerosi – post sui diversi social per farmi un’idea il più esauriente possibile indi, la cosa che più mi ha colpito in assoluto è questa:
Tolti i commenti di condanna, di sdegno, di pietà, di solidarietà e tutto il resto del circo social-mediatico, NESSUNO si è chiesto o ha nominato il padre del bambino, il genitore 2.
In un paese in cui da settimane si parla solo di “utero in affitto” (termine aberrante), di famiglie “naturali”, di mamme e di papà preventivamente procreatori e in quanto tali unici possibili, questo è sconcertante.
Invece no. Se ci si ferma un attimo a riflettere, è tutto schizofrenicamente normale.
Perché nella realtà, quella vera, quella fatta
- di accudimento h 24;
- di rinuncia (spesso per sempre) ad una vita professionale;
- di presa in carico totale di una nuova vita;
- di rinuncia alla propria;
lo sappiamo benissimo, è alla donna che “spetta”.
Per questo, nessuno si è posto il problema se – eventualmente esistesse e/o non fosse precedentemente fuggito a gambe levate – di chiedere al genitore 2 che se ne facesse carico lui.
Non ci si pensa proprio, quasi quasi verrebbe da dire “non è naturale pensarlo”.
Certo, qualcuno potrebbe rincarare la dose citando l’istinto materno e quei fantastici-unici-esclusivi-totalizzanti-indimenticabili nove mesi che “legano indissolubilmente” la vita di madre e figlio,per cui ci si aspetta che una donna debba immolare tutta la sua esistenza allo stesso.
Non sarò certo io (non mi passa neanche nell’anticamera del cervello) a sminuire l’importanza del legame madre-figlio;voglio sottolineareinvece, come lo stesso sia stato utilizzato “culturalmente”, fino a essere trasformato in un obbligo, a cui nessuna donna può sottrarsi (almeno così è nelle intenzioni) senza sentirsi sbagliata, inadeguata, incompiuta.
Per non parlare di come – a livello legale e amministrativo – con la perdita del cognome di nascita al momento del matrimonio, il potere patriarcale si sia assicurato il controllo e la proprietà e della prole e della gestante (nessuno ci vede una variazione della formula,“utero in affitto”?).
Abbiamo a tal modo interiorizzato tale mistificazione per cui da una parte l’opinione pubblica pretendeche la donna debba essere – in primis e a prescindere–persempremadre (e moglie), dall’altra i diritti insindacabili e perpetui di un padre-marito, anche se inadeguato-assente-violento.
Sarà “forse” per questo, che nei tribunali si tolgono figli al genitore accudente (alias madri), per consegnarli a genitori violenti, assenti, vendicativi e rifiutati dai figli, in nome di un diritto legato alla biologia,per cui basta essere un mero procreatore piuttosto che un genitore adeguato?
PierAnna Pischedda Psicologa
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